1. Atto dell’accettare, dell’accogliere: a. di un incarico, di un ricorso; a. di una donazione, di un’eredità; ufficio di a. dei telegrammi (alla
posta); ufficio di a. delle domande; sala di a. (dei malati all’ospedale, dei bagagli alla
stazione), ecc. In partic., a. di una cambiale, sottoscrizione del trattario sulla cambiale
(accompagnata in genere dalle parole «accettato», «visto» o sim.), mediante la
quale la cambiale tratta si trasforma, da ordine di pagamento emesso dal
traente, in promessa di pagamento alla scadenza da parte del
trattario-accettante, il quale diviene obbligato cambiario principale.
2. Atto con cui, in conseguenza di una votazione o decisione di un capitolo o di un ufficio direttivo, una persona viene ammessa a far parte di una congregazione religiosa o di una associazione qualsiasi; anche l’atto con cui viene riconosciuto un ambasciatore o un diplomatico in genere (più com. in questo senso gradimento).
3. A. di persona, locuz. di origine biblica (corrispondente al gr. προσωποληψία nei Settanta, nella Vulgata acceptio personae), comune nel linguaggio eccles. per indicare un giudizio dato non secondo ragioni di ordine morale, ma per motivi soggettivi, d’interesse o simpatia, per cui si preferisce ingiustamente una persona a un’altra.
2. Atto con cui, in conseguenza di una votazione o decisione di un capitolo o di un ufficio direttivo, una persona viene ammessa a far parte di una congregazione religiosa o di una associazione qualsiasi; anche l’atto con cui viene riconosciuto un ambasciatore o un diplomatico in genere (più com. in questo senso gradimento).
3. A. di persona, locuz. di origine biblica (corrispondente al gr. προσωποληψία nei Settanta, nella Vulgata acceptio personae), comune nel linguaggio eccles. per indicare un giudizio dato non secondo ragioni di ordine morale, ma per motivi soggettivi, d’interesse o simpatia, per cui si preferisce ingiustamente una persona a un’altra.
accettare v. tr. [dal
lat. acceptare, frequent. di accipĕre, part. pass. acceptus] (io accètto,
ecc.) www.treccani.it
1. Consentire ad accogliere, a ricevere quanto viene offerto o proposto: a. un regalo, un suggerimento, un consiglio; a. una donazione, un’eredità (anche come espressioni tecniche del linguaggio giur.); a. i patti, una proposta; a. volentieri, di buon grado, con riluttanza; non sempre è facile a. ciò che il destino ci manda; sopportare o sottomettervisi con rassegnazione; ammettere: non si accettano altre iscrizioni; non accetto che si comporti in tal modo. Per estens., con riferimento a persona e con compl. predicativo: a. come socio, come collaboratore.
2. Impegnarsi a fare, a eseguire: a. un incarico, una commissione; accetterebbe volentieri qualche lezione privata; accetto di seguirti; a. battaglia, consentire al combattimento; a. una cambiale, sottoscriverla come promessa di pagamento alla scadenza. ◆ Part. pres. accettante, anche come sost. (v. la voce).
1. Consentire ad accogliere, a ricevere quanto viene offerto o proposto: a. un regalo, un suggerimento, un consiglio; a. una donazione, un’eredità (anche come espressioni tecniche del linguaggio giur.); a. i patti, una proposta; a. volentieri, di buon grado, con riluttanza; non sempre è facile a. ciò che il destino ci manda; sopportare o sottomettervisi con rassegnazione; ammettere: non si accettano altre iscrizioni; non accetto che si comporti in tal modo. Per estens., con riferimento a persona e con compl. predicativo: a. come socio, come collaboratore.
2. Impegnarsi a fare, a eseguire: a. un incarico, una commissione; accetterebbe volentieri qualche lezione privata; accetto di seguirti; a. battaglia, consentire al combattimento; a. una cambiale, sottoscriverla come promessa di pagamento alla scadenza. ◆ Part. pres. accettante, anche come sost. (v. la voce).
Parola
complessa, evidentemente, il cui significato spazia dall’ambito giuridico a
quello ecclesiastico, che di volta in volta può implicare un atto che riceve in
positivo (un regalo, un’eredità, un incarico, l’ammissione in un gruppo) o un
atto connotato in negativo da un senso di rassegnazione: l’accettazione di una
cambiale per esempio, o la sottomissione a una realtà più grande di noi, al
destino.
Si avverte, in
queste definizioni, un senso di passività, come se si trattasse della reazione
a qualcosa che avviene fuori, prima, e che ci interpella da vicino e nel
profondo.
Quando penso a
cosa ha significato per me l’accettazione penso, in ordine cronologico, al
lungo e impervio percorso di accettazione del mio essere lesbica. Penso che
scoprire e riconoscere di amare una donna, molto prima di desiderarla, nel
mezzo della realtà di un oratorio di provincia della bergamasca richieda per lo
meno del tempo, tanto tempo, e tante unghie consumate ad arrampicarsi e
riarrampicarsi sui vetri per spiegare quell’amicizia megamegagalattica che
assomiglia un po’ troppo all’amore. Eppure, tutto sommato, non è stato
difficile accettarlo: l’altezza e la profondità di quel sentimento mi rendevano
così fiera di me stessa che non ho mai pensato, neppure per un attimo, di
rinnegarlo. Purtroppo il risvolto della medaglia era il dover prendere atto di
cambiare totalmente vita, amicizie, e ovviamente rinunciare a “lei” che,
terrorizzata dalla semplice eventualità di provare qualcosa di simile che rischiasse
di mettere a repentaglio tutto il suo sistema di valori a la sua prospettiva
rassicurante di vita, (infatti ha pensato bene di sposarsi il primo e l’unico,
orrendo, fidanzato e di scodellare tre bei bambini, così sarebbe stata più al
sicuro, immersa fino al collo nella vita che aveva scelto). Scusate se c’è
ancora una vena di sarcasmo in me quando parlo dell’argomento, è che non mi
piace non giocare le partite fino in fondo perché il risultato è deciso a
tavolino da chi ha paura della semplice eventualità di accettarsi.
Così ho giocato
la mia, di partita, cambiando totalmente vita, città, amicizie, ambienti, e
portandomi dietro orgogliosa il bagaglio di quel sentimento, pronta ad accettarne
anche i risvolti fisici e le discriminazioni che tutto questo avrebbe presto
comportato.
Un altro
episodio che la parola accettazione mi risveglia nella memoria è il momento in
cui, dopo essere tornata a casa alla fine di una storia di nove anni, ho fatto
il mio coming out con la mia mamma, che mi ha abbracciata dicendomi: “sei
sempre mia figlia e ti voglio bene”. Un momento catartico, un salto verso una
dimensione di libertà nuova, in cui tante paure che sentivo nei confronti della
mia famiglia sono improvvisamente scomparse perché mi sentivo accettata,
accolta per quello che ero.
Ne consegue che
sentirsi accettati è sempre una sensazione positiva, soprattutto se si parte da
una condizione che in qualche modo comporta il rischio di trovare di fronte a
sé un atteggiamento ostile, che parta da presupposti di sospetto e pregiudizio.
Anzi, è come se l’atto dell’accettazione in sé non fosse affatto scontato, ma
si configurasse come una reazione a qualcosa che non dipende da noi e di fronte
a cui noi dobbiamo prendere in qualche modo posizione.
Ecco, giusto,
“prendere posizione” di fronte a ciò che accade mi fa pensare a cosa significa
ora, per me, superate queste fasi, l’accettazione: ora è un concetto più ampio
e molto profondo, meno eclatante, ma così importante da essere calato nel mio quotidiano.
Accettare è un imperativo per me, un atteggiamento da imparare a vivere giorno
per giorno, fin dal momento in cui un’amica, tanti anni fa mi aveva detto: “ci
sono dei momenti in cui bisogna smettere di nuotare controcorrente e lasciarsi
trasportare”. Un imperativo per me, non certo per tutti, un imperativo per il
mio marte in leone, che mi fa correre come una forsennata urlando contro i
mulini a vento per farli girare come vorrei io, sprecando una quantità enorme
di energie e peggiorando tutte le situazioni, dal lavoro, ai litigi con gli
altri automobilisti, all’ambito privato. Ecco il paradosso quindi: il risvolto
di passività di cui è permeato il concetto dell’accettazione si rivela
positivo. Cosa sarebbe accaduto se non avessi accettato e mi fossi opposta al
mio essere lesbica? Cosa sarebbe accaduto se la mia mamma avesse voluto
“raddrizzarmi” perché io fossi più conforme ai suoi desideri?
Quanta saggezza
ancora mi manca per imparare a lasciare andare le cose, accettandole per quello
che sono, senza sentire il bisogno di cambiare la realtà, di intervenire per
avere tutto sotto controllo. Quanta felicità può scaturire dalla maturità di
porsi in un atteggiamento più flessibile, che sappia accettare e accogliere
quello che la vita ci riserva.
S.
L’accettazione è l’antitesi della negazione e del controllo. E’ la
disponibilità a riconoscere la realtà per quello che è, e a permetterle di
esistere, senza sentire il bisogno di cambiarla. Questo è il segreto di una
felicità che non viene dalla pretesa di manipolare le cose e le persone che ci
circondano, ma dalla capacità di sviluppare una pace interiore, anche di fronte
alle provocazioni e alle difficoltà.
R. Norwood, Donne che
amano troppo, Feltrinelli, Milano, 2005, p.196.
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